lunedì 12 dicembre 2016

NON ESISTE UN DOPO-REFERENDUM

E' imbarazzante, in questo Paese, salire sul carro dei vincitori, perchè quel carro è sempre affollato di personaggi sgradevoli che non meritano di starci. Quindi, restiamo con i piedi per terra: quella del no non è, dal nostro punto di vista, una vittoria, è soltanto il raggiungimento di un obiettivo, quello di far cadere un governo che ha emanato le riforme più liberiste e anti-popolari degli ultimi decenni. Il problema di fondo rimane. Non crediamo che i governi a seguire, di qualsiasi forma o colore essi saranno, riusciranno a sottrarsi alla tendenza politica di questa epoca, ossia la progressiva sovrapposizione degli interessi di chi è al potere con quelli dell'economia e della finanza.
Il completo fallimento della democrazia borghese reale si sta trascinando dietro anche la sua organizzazione formale. I commenti che la borghesia illuminata e gli intellettuali organici al sistema di sfruttamento odierno hanno fatto del risultato di questo referendum, sono stati di malcelato rancore e di neanche tanto sottile disprezzo verso gli elettori che hanno votato il no. Costoro si ostinano a non voler recepire il messaggio espresso da questo voto: la loro delegittimazione da parte di una classe in progressivo e irreversibile impoverimento, quando non già povera e disillusa. Il loro attaccamento al potere e la loro miopia analitica ci stanno trascinando verso forme di governo conservative dei privilegi e repressive del dissenso, forme che porteranno ad un ulteriore peggioramento delle condizioni reali di esistenza.
Il cadavere istituzionale dell'unione europea è pervaso al suo interno da germi razzisti e autoritari che sono le scorie più tossiche rilasciate dall'insuccesso delle sue politiche. Sono le vecchie logiche di dominio mai superate, declinate all'era tecnologica e post fattuale. Il razzismo viene usato per non parlare di politica e dei problemi sociali, e per imporre dall'alto misure draconiane ed estemporanee, come se il nocciolo della questione fosse solamente l'immigrazione, e non soprattutto il fatto che la ricchezza si sta ancora e sempre concentrando nelle mani di un'élite ben definita. L'informazione generalista, se da un lato fa finta di preoccuparsi delle derive populiste del vecchio continente, dall'altro propaganda il razzismo con un linguaggio morboso ed intollerante, dando il massimo risalto a episodi sensazionalistici e commenti "di pancia" vomitati dagli ennesimi "utili idioti". Per esempio, Salvini, squallido personaggio sempre in cerca di attenzioni, (sintomo di una sindrome dell'abbandono per la quale farebbe bene a farsi aiutare), e pronto a prendersela contro chi non si può difendere, come un qualsiasi bullo delle medie.
Siamo circondati da situazioni infuocate sulle quali i nostri governanti stanno gettando benzina. Il cambiamento non verrà certo da loro, ma dal basso, dalla nuova organizzazione di un contro-potere, di un argine contro chiunque voglia esercitare una qualsiasi autorità sulle nostre vite, dell'auto-determinazione della classe per il momento subalterna. Non esiste un dopo-referendum: è esistito un passato, dal quale dobbiamo imparare dagli errori e recuperare esperienze costruttive; esiste un presente problematico da affrontare con le armi della critica e ben consapevoli della nostra condizione; esisterà un futuro ancora da decifrare, dipenderà da noi se sarà un piacere farlo o meno.

sabato 5 novembre 2016

IN SCIOPERO FINO ALLA PENSIONE!

IN SCIOPERO FINO ALLA PENSIONE!


Ci risiamo, è successo di nuovo. Mi dicevo basta, adesso è l’ora di cambiare registro, non sei più un ragazzino, bisogna che ti trovi un lavoro serio e inizi a farti una vita. Qualcosa del tipo tutti i giorni nel solito posto, otto ore come minimo, e attaccamento, dedizione e gratitudine al datore di lavoro. “Datore di lavoro”, che stronzata di locuzione! Riniziamo a chiamare le cose con il loro nome: padrone! Forse si allevierà per un po’ la nausea che ci assale ogni mattina al risveglio.
Io l’avevo trovato, quel cazzo di lavoro, e tutti a dirmi ah che fortuna, di questi tempi, tientelo stretto che è un attimo rimanere disoccupati, sì è vero, la paga è bassa però, meglio di niente, e tutta una serie di formule consolatorie che non mi consolavano affatto, anzi non facevano altro che alimentare il senso di oppressione che mi costipava i pensieri. Tra l’altro era il lavoro che mi sarebbe dovuto piacere, è perfetto per te, all’aria aperta in mezzo alla natura, la mia consacrazione, la degna pietra tombale eretta sui cadaveri delle mie speranze. Non ce l’ho fatta invece, non l’ho sopportato, e non perché penso di essere un ribelle o perché voglio preservare l’illusione della giovinezza, ho superato queste fasi, sono più consapevole. Ogni volta che mi affranco da un lavoro mi sento sollevato, come quando, credo, si riesce a schivare un proiettile che potrebbe ucciderti. Non esiste un lavoro che riesca a sostenere, e men che meno possa trovare piacevole. Per me parla il mio percorso lavorativo: la prima occupazione fu in una cereria, inzuppavamo le candele in delle vasche di acetone, con il padrone, un vecchio ubriacone, che era lì con noi, fumava tre pacchetti di MS al giorno e ogni tanto qualche tizzone finiva dentro e ne usciva una fiammata: avevamo sedici anni e la cosa poteva anche divertirci, dopotutto gli scroccavamo le sigarette e qualche cicchetto. Poi mi ritrovai ad una pressa a fare vasi di ceramica per un bottegaio avido, corroso dal sospetto e dalla diffidenza; con me c’era un uomo sui quarantacinque anni, gentile e comprensivo, che qualche anno dopo morì ancora giovane di infarto. Successivamente fu la volta di un’industria dolciaria: ero in magazzino e preparavo i bancali per il cellista, una delle persone più tristi che abbia mai conosciuto, doveva stoccare la merce in una cella a trentadue gradi sotto zero e aveva il raffreddore tutto l’anno, anche d’agosto. Poi di nuovo ad una pressa, in una fabbrica che produceva, tra l’altro, materiali per rivestimenti di carri armati, astronavi e stronzate simili. Sette ore – turno di notte – a pigiare un bottone e accatastare piastrelle di materiale indistruttibile, destinate all’esercito israeliano e alle navicelle spaziali della NASA. Quindi in un laboratorio di bigiotteria, dove si rifinivano ninnoli con una mola spietata: ho visto un ragazzo più giovane di me perdere l’indice di una mano con quella macchina infernale, il guanto dove mancava un dito e al suo posto usciva una fontanella di sangue. Ci sono rimasto quattro giorni in quegli scantinati, giusto il tempo di inventare una scusa – allergia alla polvere di ferro. E in rapida successione: sottopagato al montaggio di lampadari e plafoniere, magazziniere in un capannone immenso senza riscaldamento, occupato nel bucolico e rustico mondo dell’agricoltura, vendemmie, raccolte, potature, giardinaggio, alla mercé di gretti caporali e aristocratici fattori che si sdegnavano di smotarsi le Hogan.
La fine di ognuno di questi lavori è stata una risalita dagli inferi, una boccata di aria fresca dopo mesi di paludosa apnea. Ricordo sempre con piacere le mattinate durante le quali mi svegliavo senza la dittatura di una sveglia e avevo davanti un giorno vuoto di obblighi e per questo pieni di seducenti aspettative. Quando lavori non riesci mai a cogliere appieno l’intensità dei profumi, la luminescenza del cielo, la vivacità dei colori e la profondità dei desideri. Tutto rimane congelato in attesa del giorno di riposo che, come l’ora d’aria del detenuto, si consuma nella bramosia dell’attesa di qualcosa di speciale, di unico, di eccezionale, che non arriverà mai. E se arriverà, rimarrà solo il suo racconto che si confonderà assieme agli altri banali discorsi della pausa-pranzo del lunedì.

Detto ciò mi trovo obbligato a considerare l’aspetto materiale della questione: senza soldi non si può stare, per ora, non si campa di rendita, almeno per quanto ci riguarda. Sembrerebbe un problema insormontabile se affrontato dalla prospettiva capitalista, cioè quella con la quale ci hanno educato e che subiamo ogni giorno. In una società in cui l’unico metro di valutazione rimane quello monetario, in cui il valore delle cose e delle persone è solo valore di scambio, in cui la convenienza determina i rapporti sociali, è inconcepibile stare senza generare profitto, senza produrre. Se per un attimo provassimo a osservare la realtà da un ottica diversa, obliqua a quella dominante, una visione storica che metta al centro dell’obiettivo i desideri dei viventi, l’armonizzazione dell’azione umana con quella del resto dell’ambiente naturale e animale, un’esistenza non più votata all’accumulazione, ma all’affinamento, alla scoperta e allo sperpero di piaceri e sensazioni – a quel punto cadrebbe il reticolato di menzogne, ansie e paure che ci hanno costruito intorno alla mente. E nessuno troverebbe più così necessario lavorare. Sarà un percorso lungo e difficile, i nostri nemici, militarmente e mediaticamente ben equipaggiati, faranno di tutto per farci desistere, ne va della loro sopravvivenza. Dovremo essere in tanti e convinti di fare la cosa giusta, perché alla fine lo è. Si tratta di salvare l’umanità dalla propria estinzione, e non è un eufemismo. E non venitemi a parlare di utopie o illusioni: trovo molto più stupido consegnare una vita, che per inciso è l’unica che abbiamo, allo sfruttamento soltanto perché non siamo più capaci di immaginarci una condizione migliore.    

venerdì 30 settembre 2016

IL SONNO DI UNA REGIONE GENERA RENZI

IL SONNO DI UNA REGIONE GENERA RENZI

Toscana: la regione “rossa” per eccellenza, oppure, a seconda dei gusti, “il buco nero della democrazia”, come la definì qualche anno fa un vecchio protettore di prostitute. Terra solcata da vanghe millenarie che, oltre al sudore, ha dovuto assorbire il sangue dei vigliacchi eccidi nazi-fascisti, dai quali nacque una lotta fiera e orgogliosa, e ben presto tradita. Le case del popolo, le cooperative, le bestemmie come intercalare. Dalla fine della seconda guerra mondiale tutti i rapporti economici e sociali si sono retti su compromessi formali, sia con il capitale che con la chiesa, e di conseguenza con l’organismo che le riuniva, la democrazia cristiana. Le amministrazioni erano guidate a grande maggioranza dal PCI, e distillavano politiche sociali quel tanto che bastava a tenere calma la base ed evitare che si corresse il rischio di realizzare il comunismo. La domenica il marito andava al bar e la moglie ad ascoltare il prete, così che il saldo delle anime fosse almeno in pareggio. Le cose sembravano funzionare e questa situazione si cristallizzò: i bottegai costruivano villette abusive al mare, il “padrone-compagno” elargiva tredicesime agli operai, che in questo modo potevano permettersi l’auto e tutti i comfort del nascente consumismo.
Con la caduta del Muro e le conseguenti periodiche ristrutturazioni del capitalismo, il compromesso iniziò a vacillare, scoperchiando tutte le sue contraddizioni. La sinistra istituzionale, durante tutte le sue involuzioni, è rimasta al timone del potere locale, ma per sopravvivere è stata costretta a continue concessioni nei confronti del nuovo assetto economico: in poche parole, essendo i rapporti di forza favorevoli a quest’ultimo, ha dovuto mascherare le privatizzazioni e i tagli al welfare come frutti della propria anima riformista, puntando sulla narrazione di un “liberismo dal volto umano”. In questo brodo di coltura, con l’opinione pubblica ancora frastornata, incapace di reagire e tendenzialmente sempre più povera, si sono fatte strada nella classe dirigente del nuovo partito mutazioni ibride, soluzioni liquide buone per tutte le stagioni, figure che mantengono i tratti d’onestà e fiducia tipici di una certa idea di sinistra, unito al pragmatismo delle buone intenzioni dal sapore democristiano, il tutto condito dalla giusta dose di paraculaggine ereditata dal miglior berlusconismo. Questo nuovo standard nazional-popolare, integrandosi con la supposta, proverbiale simpatia dei toscani, ha generato oltretutto personaggi funzionali ad una determinata narrazione culturale, che hanno fatto in una certa misura da apripista al successo del format. Ci riferiamo a starlette del calibro di Carlo Conti, Pieraccioni, Panariello, Jovanotti, spacciatori inflazionati di sentimenti plastificati e spensierate risate, ansiolitici ideali a far dimenticare la pauperizzazione delle nostre esistenze.
Ovviamente voteremo NO al prossimo referendum. Ma non per esprimere disaccordo su una legge specifica, salvare la costituzione, o a cosa diavolo serva questo referendum. D’altra parte, anche le destre e losche figure imprenditoriali hanno manifestato la loro intenzione di diniego, inserita nelle dinamiche di lotta per il potere interne alle classi dirigenti, dimensione che non ci riguarda. La Legge è sempre stata funzionale alla gestione e alla conservazione dei privilegi delle classi dominanti, lo abbiamo ben chiaro e non abbiamo la pretesa di cambiarla, ne vogliamo piuttosto la dissoluzione. Il nostro NO trascende l’apporre una semplice crocetta su un foglio: è la risposta ad una domanda che chi ci governa ha una gran paura di porci, è la negazione di tutto un sistema di pensiero basato sullo sfruttamento e la prevaricazione, è l’opposizione totale, radicale, alle azioni che una minoranza ben armata sta imponendo al resto dell’umanità. Se poi questo voto servirà a far cadere un governo, tanto di guadagnato: alimentare il caos, analizzarlo, approfittare delle pieghe che possono essere favorevoli alla nostra classe, quella proletaria, visto che la confusione che regna in essa non ne permette un’organizzazione. Si può avere opinioni differenti su questioni specifiche, ma su una cosa bisognerebbe essere tutti d’accordo: il capitalismo va distrutto, prima che ci distrugga.

COLLETTIVO ANTIKUNST


mercoledì 18 maggio 2016

LA POESIA NELL’ERA DELLA SUA MANIPOLAZIONE MEDIATICA


Cari i miei tempi strani! Dove vediamo settantenni ricordare il rock’n roll della loro giovinezza –
Dove si ristrutturano le piazze in base alle esigenze del momento –
Dove la necessità di sublimare sta diventando l’ultimo modo di capire.
Dove non si dice più “unico” perché considerata una categoria obsoleta.
Dove la speranza si risolve in una vacanza-premio a Singapore –
Dove un articolo come la droga ha ancora/sempre bisogno di pubblicità –
Dove i desideri delle donne e degli uomini trasbordano oltre i versi di una sestina.

La poesia è il battito del cuore del mondo, e non è nato ancora nessuno che la sappia insegnare. C’è stato chi è riuscito a renderla gradevole, al passo coi tempi, piacevole al gusto e all’orgasmo. D’altronde, ci vuole una certa predisposizione al commercio, bisogna pur campare!
Le vedo che ci osservano, le Muse orgogliose, schierate come una giuria civile. Non parlano per il momento, annoiate ed immobili, ma lo sguardo è come una sentenza. C’è chi piange, ma è soltanto perché sta tagliando una cipolla. C’è chi ride, ripensando ad una brutta figura che hai fatto qualche anno fa. Chi si commuove addirittura, presaga della tua triste fine, del proiettile che metterà il punto alla sorte.
Sono deluse, accigliate, qualcuna ha già preparato i bagagli. Se sono rimaste fino ad ora – povere anime! – è solo perché hanno ceduto al ricatto, hanno creduto nel riscatto. Ma ormai hanno già visto quello che avevi da offrire, ed hanno esclamato: -Ah beh, avanti il prossimo!
Chi le può biasimare, creature celesti!, se adesso si dilettano a prendere il sole di una nuova primavera, o percorrono l’ineluttabile del loro destino? Io no di certo, soldato nelle schiere delle loro titubanze, disertore tardivo e per questo complice carnefice. Posso solo sparire in silenzio, lasciando ad altri il trambusto dell’incomprensione.
Scivolare verso sud, seguendo il declivio naturale della terra, agognando un perdono che comunque non meriterei. Se non altro scurirebbe la mia pelle e mi fornirebbe nuove cicatrici delle quali potrei inventare la genesi. Rassoderebbe le membra allontanandomi dalla maggiore oscurità.
Ma senza le mie Muse, chi placherà il freddo? Il vento sbuffa già borioso, ed è appena settembre! Tu mi dici che nuove coperte serviranno allo scopo, ma saranno abbastanza calde? Sapranno dove ripararmi? Ma, in fondo, non è un loro problema.
Però che nostalgia, le mie affascinanti camelie, le ho riviste con gli occhi di una volta, non sono per niente invecchiate. Si muovono ancora leggere, scattanti come tortorelle, e non ci badano nemmeno.
Non le ha per niente sfiorate l’inferno che mi ha consumato in questi anni. Mi sorridono per un attimo, colme di compassione, e poi sotto a pensare a come vivere. C’è da mandare avanti la baracca, agli scarti come noi ci penseranno da ultimo.

La poesia è il rumore della digestione di un malessere interiore. Un perentorio peto scoccato in faccia al negativo. La valvola di sfogo di una costipazione esistenziale. In questi tempi di censura delle emozioni, queste parole, ammucchiate a formare un faro di fronte ad una notte troppo buia, sono una resistenza all’annullamento. Fin quando continueranno ad uscire – e sono certo che non smetteranno mai – la fine si potrà posticipare.
Forti di almeno una certezza, o illusi da un errore madornale, ci affacciamo di nuovo alla superficie, guardinghi e sospettosi. Nessuno sembra notarci, sono tutti troppo occupati nei loro mestieri importanti.
Ci facciamo coraggio e occupiamo gli spazi improduttivi, i monumenti di cattivo gusto, le spiagge irraggiungibili, i castelli troppo grandi. Non vogliamo una proprietà – vogliamo la fine della proprietà.
C’è chi non capisce, o forse capisce fin troppo bene: -Non si può far così, c’è un regolamento, se non lo rispettiamo, sarà il caos!
Bisognerebbe mettersi d’accordo, almeno sulla concezione dell’idea di disordine, cosi saranno più chiari gli schieramenti, una volta per tutte.

La poesia è il linguaggio cifrato che il nemico non riuscirà mai a capire, e questo lo rende nervoso, vulnerabile. E’ riappropriarsi delle parole, per non dover più prenderle in prestito, pagando un interesse troppo alto. E’ il sottinteso che emerge all’improvviso, lasciando di stucco i delatori, e illuminando chi ancora non era convinto.
L’esproprio delle parole da parte della cultura dominante è uno dei più gravi e sottovalutati crimini contro l’umanità, aggravato dal fatto che cerca – e pare con successo – di rivenderle, sterilizzate e ben plastificate, maggiorate dei costi di imballaggio e spedizione. La loro riproduzione vuota ed ossessiva è l’ultima mistificazione della loro funzione originaria.
A chi potrà ormai importare un uso qualitativo delle parole, se adesso conviene di più accumularle ed urlarle per avere ragione? Noi, che riconosciamo le parole come sola moneta per arrivare ai nostri desideri, subiamo questa controffensiva, apparentemente sfrenata. Ci struggiamo nella ricerca di una dimensione inattaccabile, e per questo ci silenziamo per anni.
Partecipiamo controvoglia allo scambio neutro delle chiacchiere di circostanza e intanto, con fragili tasselli, costruiamo il bastione che conterrà l’urto di una nuova ritorsione. Si sa, i rapporti di forza per il momento sono a nostro svantaggio, e il fortilizio può crollare in ogni istante. Ma le radici non potranno essere estirpate, almeno non in questa vita, è la nostra dannazione.

La poesia è anche il rumore dei baci, il fragore dello sfregamento delle pelli avvinghiate.
Mi piacerebbe riuscire a piangere, ma il riscaldamento globale ha prosciugato tutte le mie lacrime. Posso solo restarmene triste in disparte, continuando a sperare che il mio stato d’animo venga scambiato per serietà. Non meritiamo questo supplizio, non ne abbiamo colpa. “… rimpianti tanti; in ogni caso, nessun rimorso …”






lunedì 8 febbraio 2016

IL SOGNO DI UNA GENERAZIONE SARA' L'INCUBO DI QUELLA SUCCESSIVA



IL SOGNO DI UNA GENERAZIONE SARA' L'INCUBO DI QUELLA SUCCESSIVA

Alle ultime elezioni in Francia, molti sinceri democratici si sono potuti lasciar andare ad una delle loro perversioni più inconfessabili: votare per la destra e contemporaneamente preservare la propria coscienza da incubi etico-morali, un regalo che questo sistema ha voluto fare ai propri aficionados in prossimità della sua dissoluzione. E’ così che il sogno democratico dei nostri padri rivela la sua consistenza, pari a quella della nebbia. Dal suo diradarsi si mostra una realtà ben poco onirica, lontana dalla retorica di chi ha interesse a mantenere in vita quel sogno. Il sistema della crisi permanente del capitale non è più in grado di garantire anche solo la parvenza della democrazia, ma non sembra curarsene più di tanto. Basta vedere il caso italiano, da sempre all’avanguardia nello sperimentare nuove perversioni democratiche, dove da tre legislature stanno governando individui mai eletti, ma imposti dal sistema economico-finanziario per la loro malleabilità. Un tratto di penna di un’agenzia di rating ha causato quello che venti anni di mobilitazioni civili non sono riuscite ad ottenere, cioè mettere fuorigioco Berlusconi. La bagarre elettorale che si scatena prima di ogni consultazione non ha niente di politico, è solo uno scontro tra interessi contrapposti allo scopo di ottenere i posti migliori per legiferare a favore dei loro gruppi d’influenza, dove tutti sono nella stessa misura ricattabili e quindi devono stare al gioco. I vari partiti che si trovano a concorrere per essere eletti (non consideriamo più la distinzione tra destra e sinistra, visto che l’asse del ventaglio elettorale si è spostata ormai decisamente verso destra) sono la solita faccia della stessa medaglia, in competizione tra loro per occuparne una porzione maggiore.

Le nuove generazioni, altamente spoliticizzate e prive di qualsiasi consapevolezza del loro stato di sottoposti, subiscono la natura mafiosa e repressiva del capitale come un’inevitabile fatalità, perché non riescono, almeno per il momento, ad immaginarsi un’alternativa percorribile. Il dissenso, la contestazione, il dubbio, sono segregati in delle bolle insonorizzate che si perdono nel caos delle metropoli, rese innocue dal frastuono della propaganda consumista. Questa impotenza innesca dei meccanismi di difesa psichica che portano gli individui ad arroccarsi intorno alle loro misere proprietà materiali, ad atomizzarsi nelle proprie case alla luce pallida di un monitor, unico sollievo ad una noia che rischia in ogni momento di diventare mortale. Non è per paura che la gente non esce la sera, è perché non saprebbe davvero cosa fare. Nel prossimo futuro la sola cosa democratica sarà la miseria, quindi converrebbe iniziare a pensare a come rapportarsi alla nuova situazione, invece di illudersi e continuare a sperare in una “ripresa”, che non arriverà mai più. Il caso del fallimento delle banche ce lo ha mostrato chiaramente: una porzione sempre maggiore di popolazione sta diventando sacrificabile di fronte alle esigenze del capitale, i “garantiti” sono sempre meno e si apprestano a instaurare una moderna aristocrazia.

Dopo gli ultimi attentati di Parigi, uno dei commenti più comuni e ottusi uscito dalla bocca di ogni idiota che si ergeva a paladino della civiltà occidentale, è stato: - Non cambieremo il nostro stile di vita! E’ proprio questo uno dei problemi: continuare a distruggere il pianeta e sfruttare la maggior parte della popolazione mondiale per mantenere in vita un sistema opulento e disumano, pensando di non dover mai pagare le conseguenze di quelle azioni, è quantomeno poco lungimirante, nonché egoista e razzista. E’ in atto, nell’informazione generalista, una vera e propria educazione al razzismo, che influenza la percezione dell’opinione pubblica nei confronti dello “straniero” e del “diverso”. Vengono enfatizzati oltremodo i crimini (anche se inventati) commessi da immigrati, meglio se clandestini, nel tentativo di far ricadere qualsiasi colpa della nostra miseranda esistenza sul mostro straniero, di volta in volta disegnato come barbaro, incivile, fanatico, misogino. Un giornale come Repubblica si è sentito in dovere di specificare più volte che l’uomo col fucile giocattolo alla stazione Termini di Roma era “un italiano”, dopo che lo stesso giornale, all’inizio di tutta la faccenda, era quasi certo che si trattasse di uno straniero (quindi, implicitamente, terrorista islamico). Tralasciando per un attimo la pessima figura fatta dalle forze dell’ordine in questa vicenda (che comunque nessuno si è permesso di criticare), queste costanti allusioni interessate portano ad episodi di isteria collettiva, come quelli seguiti all’evacuazione della stazione, e più in generale ad un clima di paranoia perenne che influenza i rapporti nel quotidiano. Sentimenti di diffidenza e più o meno aperto disprezzo sono ormai sdoganati nei discorsi pubblici, anche da elementi che si considerano “progressisti” (- Io non sono razzista, ma…, è una delle spie di questa deriva d’intolleranza). Ai governi tutto questo non può che far piacere, gli permette di nascondere la loro incompetenza e malafede dietro le foglie di fico delle emergenze varie, che offrono la sponda per giustificare leggi sempre più repressive, stati d’eccezione che diventano la regola e, nel lungo periodo, gli interventi militari di cui il capitalismo ha un gran bisogno per svuotare i propri arsenali. Un altro sogno che diventa incubo (l’informazione) in quanto rimane inscritto in un sistema i cui rapporti di forza sono determinati da imperativi economici. Quando i sogni, le speranze, le illusioni non trovano uno sbocco pratico che sia reale e allo stesso tempo totalizzante, che riguardi cioè ogni aspetto del vissuto e porti al superamento del sistema nel quale si formano, il capitalismo avrà sempre gioco facile a recuperarli e dargli un valore di scambio che ne annulli l’eventuale potere sovversivo.