mercoledì 18 maggio 2016

LA POESIA NELL’ERA DELLA SUA MANIPOLAZIONE MEDIATICA


Cari i miei tempi strani! Dove vediamo settantenni ricordare il rock’n roll della loro giovinezza –
Dove si ristrutturano le piazze in base alle esigenze del momento –
Dove la necessità di sublimare sta diventando l’ultimo modo di capire.
Dove non si dice più “unico” perché considerata una categoria obsoleta.
Dove la speranza si risolve in una vacanza-premio a Singapore –
Dove un articolo come la droga ha ancora/sempre bisogno di pubblicità –
Dove i desideri delle donne e degli uomini trasbordano oltre i versi di una sestina.

La poesia è il battito del cuore del mondo, e non è nato ancora nessuno che la sappia insegnare. C’è stato chi è riuscito a renderla gradevole, al passo coi tempi, piacevole al gusto e all’orgasmo. D’altronde, ci vuole una certa predisposizione al commercio, bisogna pur campare!
Le vedo che ci osservano, le Muse orgogliose, schierate come una giuria civile. Non parlano per il momento, annoiate ed immobili, ma lo sguardo è come una sentenza. C’è chi piange, ma è soltanto perché sta tagliando una cipolla. C’è chi ride, ripensando ad una brutta figura che hai fatto qualche anno fa. Chi si commuove addirittura, presaga della tua triste fine, del proiettile che metterà il punto alla sorte.
Sono deluse, accigliate, qualcuna ha già preparato i bagagli. Se sono rimaste fino ad ora – povere anime! – è solo perché hanno ceduto al ricatto, hanno creduto nel riscatto. Ma ormai hanno già visto quello che avevi da offrire, ed hanno esclamato: -Ah beh, avanti il prossimo!
Chi le può biasimare, creature celesti!, se adesso si dilettano a prendere il sole di una nuova primavera, o percorrono l’ineluttabile del loro destino? Io no di certo, soldato nelle schiere delle loro titubanze, disertore tardivo e per questo complice carnefice. Posso solo sparire in silenzio, lasciando ad altri il trambusto dell’incomprensione.
Scivolare verso sud, seguendo il declivio naturale della terra, agognando un perdono che comunque non meriterei. Se non altro scurirebbe la mia pelle e mi fornirebbe nuove cicatrici delle quali potrei inventare la genesi. Rassoderebbe le membra allontanandomi dalla maggiore oscurità.
Ma senza le mie Muse, chi placherà il freddo? Il vento sbuffa già borioso, ed è appena settembre! Tu mi dici che nuove coperte serviranno allo scopo, ma saranno abbastanza calde? Sapranno dove ripararmi? Ma, in fondo, non è un loro problema.
Però che nostalgia, le mie affascinanti camelie, le ho riviste con gli occhi di una volta, non sono per niente invecchiate. Si muovono ancora leggere, scattanti come tortorelle, e non ci badano nemmeno.
Non le ha per niente sfiorate l’inferno che mi ha consumato in questi anni. Mi sorridono per un attimo, colme di compassione, e poi sotto a pensare a come vivere. C’è da mandare avanti la baracca, agli scarti come noi ci penseranno da ultimo.

La poesia è il rumore della digestione di un malessere interiore. Un perentorio peto scoccato in faccia al negativo. La valvola di sfogo di una costipazione esistenziale. In questi tempi di censura delle emozioni, queste parole, ammucchiate a formare un faro di fronte ad una notte troppo buia, sono una resistenza all’annullamento. Fin quando continueranno ad uscire – e sono certo che non smetteranno mai – la fine si potrà posticipare.
Forti di almeno una certezza, o illusi da un errore madornale, ci affacciamo di nuovo alla superficie, guardinghi e sospettosi. Nessuno sembra notarci, sono tutti troppo occupati nei loro mestieri importanti.
Ci facciamo coraggio e occupiamo gli spazi improduttivi, i monumenti di cattivo gusto, le spiagge irraggiungibili, i castelli troppo grandi. Non vogliamo una proprietà – vogliamo la fine della proprietà.
C’è chi non capisce, o forse capisce fin troppo bene: -Non si può far così, c’è un regolamento, se non lo rispettiamo, sarà il caos!
Bisognerebbe mettersi d’accordo, almeno sulla concezione dell’idea di disordine, cosi saranno più chiari gli schieramenti, una volta per tutte.

La poesia è il linguaggio cifrato che il nemico non riuscirà mai a capire, e questo lo rende nervoso, vulnerabile. E’ riappropriarsi delle parole, per non dover più prenderle in prestito, pagando un interesse troppo alto. E’ il sottinteso che emerge all’improvviso, lasciando di stucco i delatori, e illuminando chi ancora non era convinto.
L’esproprio delle parole da parte della cultura dominante è uno dei più gravi e sottovalutati crimini contro l’umanità, aggravato dal fatto che cerca – e pare con successo – di rivenderle, sterilizzate e ben plastificate, maggiorate dei costi di imballaggio e spedizione. La loro riproduzione vuota ed ossessiva è l’ultima mistificazione della loro funzione originaria.
A chi potrà ormai importare un uso qualitativo delle parole, se adesso conviene di più accumularle ed urlarle per avere ragione? Noi, che riconosciamo le parole come sola moneta per arrivare ai nostri desideri, subiamo questa controffensiva, apparentemente sfrenata. Ci struggiamo nella ricerca di una dimensione inattaccabile, e per questo ci silenziamo per anni.
Partecipiamo controvoglia allo scambio neutro delle chiacchiere di circostanza e intanto, con fragili tasselli, costruiamo il bastione che conterrà l’urto di una nuova ritorsione. Si sa, i rapporti di forza per il momento sono a nostro svantaggio, e il fortilizio può crollare in ogni istante. Ma le radici non potranno essere estirpate, almeno non in questa vita, è la nostra dannazione.

La poesia è anche il rumore dei baci, il fragore dello sfregamento delle pelli avvinghiate.
Mi piacerebbe riuscire a piangere, ma il riscaldamento globale ha prosciugato tutte le mie lacrime. Posso solo restarmene triste in disparte, continuando a sperare che il mio stato d’animo venga scambiato per serietà. Non meritiamo questo supplizio, non ne abbiamo colpa. “… rimpianti tanti; in ogni caso, nessun rimorso …”