venerdì 3 aprile 2020

NON STA ANDANDO TUTTO BENE

E' ormai un'evidenza: il cosidetto "lockdown", così come è stato pensato ed agito dal governo di questo paese, è stato un fallimento. Dopo un mese dall'inizio di  questa misura, possiamo affermarlo senza timore di smentita. Il fantomatico "picco" dei decessi non è arrivato, ed è ormai quasi sparito dalla narrazione mainstream  così ansiosa di far ripartire "l'economia". Più verosimilmente assisteremo ad un calo progressivo che forse coinciderà con l'approssimarsi del clima mite e l'arrivo  dell'estate. Il prossimo autunno, se rimarrà questo l'andazzo e i governanti persevereranno nella loro ottusità, saremo punto e a capo, visto che il vaccino è ancora  di là da venire.

In primo luogo, l'aspetto più palese del fallimento si è manifestato dal punto di vista sanitario, il settore più direttamente coinvolto nell'emergenza: misure  approssimative e scollegate, con il personale ospedaliero abbandonato a sè stesso e sprovvisto della necessaria e basilare strumentazione per affrontare e arginare  questa inedita epidemia. Se accettassimo (e, ovviamente, non accettiamo) la metafora guerresca propugnata dalla propaganda istituzionale, questa débacle sanitaria  si potrebbe paragonare alla Campagna di Russia e alle scarpe di cartone di mussoliniana memoria. Non di meno è il risultato di decenni di tagli allo stato sociale, di  privatizzazioni in mano al liberismo più avido e avventato, di un professionismo rivestito di broccato e gioielli che con il loro illusorio luccichio promettevano un  futuro di inesauribile miglioramento materiale. (Prima o poi questi patiti del benessere andranno trattati alla stregua dei tossicodipendenti, riconoscendoli ed  evitandogli di prendere decisioni durante le loro crisi allucinatorie e di astinenza).

Era chiaro fin dall'inizio quale sarebbero state le prerogative, quando il governo dichiarò lo stato di emergenza. Non ne hanno mai fatto mistero: la produzione  doveva andare avanti, avevano previsto qualche effetto collaterale, qualcos'altro doveva essere sacrificato (ed è per queste occasioni che mantengono sempre  qualcosa di sacrificabile, anche nei periodi di bonaccia), ma le grandi aziende, gli amici degli amici, quelli che "mandano avanti il paese" (cioè coloro che sono  riusciti ad inserire degli influencer tra chi ha il potere di decidere) dovevano rimanere aperte, ad ogni costo - e per favore, lasciamo perdere la pelosa distinzione  essenziali-non essenziali, loro non decidono in base a questi obsoleti manicheismi.
La reazione esclusivamente emotiva che è scaturita tra la popolazione al diffondersi del virus non ha fatto altro che rafforzare quelle prerogative e dissipato le  residue remore degli imprenditori più pavidi. Il sacrificio delle classi subalterne è sfumato in secondo piano, è diventato scontato, c'era da difendere l'onore di una  nazione, la sua prosecuzione biologica ed economica.
In poche parole, la classe dirigente, privilegiata, l'élite neoliberista, l'aristocrazia delle rendite, i padroni, insomma, le varie categorie che raccolgono i frutti inquinati  del capitalismo maturo, hanno fatto la loro mossa scontata: chi è dentro ormai è in ballo, è sacrificabile, non può sfuggire. Lo chiameremo "eroe", decanteremo da  tutti i balconi della patria le sue gesta, ricorderemo il suo martirio con viva commozione ogni anno istituendo un giorno alla sua memoria.
Gli altri tutti in casa, chiusi a consumare quello che è ancora consumabile, ad abituarsi a socializzare solo tramite apparecchi elettronici, ad abituarsi ad avere paura,  ad obbedire ad ogni altra chiamata all'emergenza. I governanti devono coltivare l'obbedienza nelle classi subalterne, esse saranno la carne da cannone dei prossimi  lockdown.

Questa quarantena è un pessimo precedente. Ha dimostrato ai governanti la misura illimitata del loro ascendente sui governati. Ha accelerato in una folle fuga in  avanti le loro possibilità di controllo sui sottoposti. Ha rafforzato ulteriormente il loro potere già in precedenza assodato.
E' un pessimo precedente soprattutto per le classi subalterne. La loro mancata reazione all'arbitrarietà delle decisioni repressive, l'incapacità di instaurare  un'alternativa autonoma alle costrizioni delle istituzioni, sono carenze che si faranno sentire pure nel breve periodo.
Nessuno mette in dubbio il fatto che fosse necessario fermare la diffusione del virus (a mente fredda poi sarà utile discutere su come il virus sia nato e in che brodo  di coltura si sia sviluppato, cioè nella società neoliberista opulenta e inquinata), solo che delegare le decisioni sulla nostra salute a dei governi che hanno fatto tutto il  possibile per limitare il nostro accesso ad essa, sembra un'idea come minimo deleteria.

Al di là della dimensione politica della faccenda, sicuramente preponderante e che influenza tutto il resto, esiste anche una "sovrastruttura" psichica, cioè in che  modo gli individui si rapportano a questa epidemia, e dell'immaginario collettivo che ne viene fuori. L'agire delle persone in questi giorni (pensiamo specificamente a  persone che si considerano perlomeno orientate a "sinistra" e che non stanno battendo ciglio di fronte al dilagare della delazione e ad una sospensione dei diritti  civili che avrebbe fatto invidia a JunioValerio Borghese) - l'agire delle persone sembra condizionato eccessivamente dalla paura di morire, o meglio, dal fatto che la  nostra epoca abbia uno sporadico rapporto con la morte, sicuramente un privilegio dei nostri tempi (e dei nostri luoghi, perchè in altre parti del mondo il rapporto  rimane frequente anche oggigiorno). Ovvio che la paura di morire sia innata nell'essere umano in quanto essere cosciente, ma a questo si aggiunge il fatto che ci  siamo disabituati alle elaborazioni dei lutti. Non siamo pronti a morire (nonostante le teste d'uovo che lo cantano dai balconi), stimiamo troppo importante la nostra  vita in confronto a tutto il resto, che alla fine accettiamo di tutto pur di non morire (basta che sembri efficace); reputiamo "non conveniente" mettere in gioco le  nostre vite per un loro miglioramento qualitativo; ci attacchiamo con le unghie a questo simulacro di vita ogni volta che qualcosa di esterno la minaccia.
Questo potrebbe spiegare in parte anche le difficoltà di radicalizzazione che sta vivendo il movimento di contestazione in Italia negli ultimi vent'anni: c'è un grande  rimosso che non è mai stato veramente elaborato, la morte di Carlo Giuliani e le violenze di Genova 2001, che seguiva altri grandi rimossi, la lotta armata e gli anni  settanta, giù fino alle vendette del dopoguerra. Si potrebbero inquadrare queste difficoltà come disturbi da stress post-traumatico. Ma questi sono altri discorsi.

Perciò, bruciamo fin da subito le illusioni: no, non ci sarà una sollevazione popolare; no, il capitalismo non crollerà. Nonostante tutti promettano di ricordare i torti e  i soprusi venuti fuori durante questa quarantena, quando finirà molti saranno travolti da problemi economici e  psicologici e avranno altri cazzi per la testa. Sarà  invece utile conservare, organizzare ed accrescere quelle situazioni di solidarietà dal basso che si sono create un po' dappertutto, e aprire una discussione seria su  come sviluppare autonomia nei periodi di emergenza, per non farsi cogliere impreparati come questa volta. E' vero, non è la controffensiva in grande stile che tutti  vorremmo, ma al momento i rapporti di forza sono questi, e l'unica maniera che abbiamo per incidere sul reale rimane il lento lavorio quotidiano nell'intessere  relazioni paritarie, rimanendo lucidi e critici. Non sarà una passeggiata.