LA POESIA
NELL’ERA DELLA SUA MANIPOLAZIONE MEDIATICA
Cari i miei
tempi strani! Dove vediamo settantenni ricordare il rock’n roll della loro
giovinezza –
Dove si
ristrutturano le piazze in base alle esigenze del momento –
Dove la
necessità di sublimare sta diventando l’ultimo modo di capire.
Dove non si dice
più “unico” perché considerata una categoria obsoleta.
Dove la speranza
si risolve in una vacanza-premio a Singapore –
Dove un articolo
come la droga ha ancora/sempre bisogno di pubblicità –
Dove i desideri
delle donne e degli uomini trasbordano oltre i versi di una sestina.
La poesia è il
battito del cuore del mondo, e non è nato ancora nessuno che la sappia
insegnare. C’è stato chi è riuscito a renderla gradevole, al passo coi tempi,
piacevole al gusto e all’orgasmo. D’altronde, ci vuole una certa
predisposizione al commercio, bisogna pur campare!
Le vedo che ci
osservano, le Muse orgogliose, schierate come una giuria civile. Non parlano
per il momento, annoiate ed immobili, ma lo sguardo è come una sentenza. C’è
chi piange, ma è soltanto perché sta tagliando una cipolla. C’è chi ride,
ripensando ad una brutta figura che hai fatto qualche anno fa. Chi si commuove
addirittura, presaga della tua triste fine, del proiettile che metterà il punto
alla sorte.
Sono deluse,
accigliate, qualcuna ha già preparato i bagagli. Se sono rimaste fino ad ora –
povere anime! – è solo perché hanno ceduto al ricatto, hanno creduto nel
riscatto. Ma ormai hanno già visto quello che avevi da offrire, ed hanno
esclamato: -Ah beh, avanti il prossimo!
Chi le può
biasimare, creature celesti!, se adesso si dilettano a prendere il sole di una
nuova primavera, o percorrono l’ineluttabile del loro destino? Io no di certo,
soldato nelle schiere delle loro titubanze, disertore tardivo e per questo
complice carnefice. Posso solo sparire in silenzio, lasciando ad altri il
trambusto dell’incomprensione.
Scivolare verso
sud, seguendo il declivio naturale della terra, agognando un perdono che
comunque non meriterei. Se non altro scurirebbe la mia pelle e mi fornirebbe
nuove cicatrici delle quali potrei inventare la genesi. Rassoderebbe le membra
allontanandomi dalla maggiore oscurità.
Ma senza le mie
Muse, chi placherà il freddo? Il vento sbuffa già borioso, ed è appena
settembre! Tu mi dici che nuove coperte serviranno allo scopo, ma saranno
abbastanza calde? Sapranno dove ripararmi? Ma, in fondo, non è un loro
problema.
Però che
nostalgia, le mie affascinanti camelie, le ho riviste con gli occhi di una
volta, non sono per niente invecchiate. Si muovono ancora leggere, scattanti
come tortorelle, e non ci badano nemmeno.
Non le ha per
niente sfiorate l’inferno che mi ha consumato in questi anni. Mi sorridono per
un attimo, colme di compassione, e poi sotto a pensare a come vivere. C’è da mandare
avanti la baracca, agli scarti come noi ci penseranno da ultimo.
La poesia è il
rumore della digestione di un malessere interiore. Un perentorio peto scoccato
in faccia al negativo. La valvola di sfogo di una costipazione esistenziale. In
questi tempi di censura delle emozioni, queste parole, ammucchiate a formare un
faro di fronte ad una notte troppo buia, sono una resistenza all’annullamento.
Fin quando continueranno ad uscire – e sono certo che non smetteranno mai – la
fine si potrà posticipare.
Forti di almeno
una certezza, o illusi da un errore madornale, ci affacciamo di nuovo alla
superficie, guardinghi e sospettosi. Nessuno sembra notarci, sono tutti troppo
occupati nei loro mestieri importanti.
Ci facciamo
coraggio e occupiamo gli spazi improduttivi, i monumenti di cattivo gusto, le
spiagge irraggiungibili, i castelli troppo grandi. Non vogliamo una proprietà –
vogliamo la fine della proprietà.
C’è chi non
capisce, o forse capisce fin troppo bene: -Non si può far così, c’è un
regolamento, se non lo rispettiamo, sarà il caos!
Bisognerebbe
mettersi d’accordo, almeno sulla concezione dell’idea di disordine, cosi
saranno più chiari gli schieramenti, una volta per tutte.
La poesia è il
linguaggio cifrato che il nemico non riuscirà mai a capire, e questo lo rende
nervoso, vulnerabile. E’ riappropriarsi delle parole, per non dover più
prenderle in prestito, pagando un interesse troppo alto. E’ il sottinteso che
emerge all’improvviso, lasciando di stucco i delatori, e illuminando chi ancora
non era convinto.
L’esproprio
delle parole da parte della cultura dominante è uno dei più gravi e
sottovalutati crimini contro l’umanità, aggravato dal fatto che cerca – e pare
con successo – di rivenderle, sterilizzate e ben plastificate, maggiorate dei
costi di imballaggio e spedizione. La loro riproduzione vuota ed ossessiva è
l’ultima mistificazione della loro funzione originaria.
A chi potrà
ormai importare un uso qualitativo delle parole, se adesso conviene di più
accumularle ed urlarle per avere ragione? Noi, che riconosciamo le parole come
sola moneta per arrivare ai nostri desideri, subiamo questa controffensiva,
apparentemente sfrenata. Ci struggiamo nella ricerca di una dimensione inattaccabile,
e per questo ci silenziamo per anni.
Partecipiamo
controvoglia allo scambio neutro delle chiacchiere di circostanza e intanto,
con fragili tasselli, costruiamo il bastione che conterrà l’urto di una nuova
ritorsione. Si sa, i rapporti di forza per il momento sono a nostro svantaggio,
e il fortilizio può crollare in ogni istante. Ma le radici non potranno essere
estirpate, almeno non in questa vita, è la nostra dannazione.
La poesia è
anche il rumore dei baci, il fragore dello sfregamento delle pelli avvinghiate.
Mi piacerebbe
riuscire a piangere, ma il riscaldamento globale ha prosciugato tutte le mie
lacrime. Posso solo restarmene triste in disparte, continuando a sperare che il
mio stato d’animo venga scambiato per serietà. Non meritiamo questo supplizio,
non ne abbiamo colpa. “… rimpianti tanti; in ogni caso, nessun rimorso …”
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