venerdì 30 settembre 2016

IL SONNO DI UNA REGIONE GENERA RENZI

IL SONNO DI UNA REGIONE GENERA RENZI

Toscana: la regione “rossa” per eccellenza, oppure, a seconda dei gusti, “il buco nero della democrazia”, come la definì qualche anno fa un vecchio protettore di prostitute. Terra solcata da vanghe millenarie che, oltre al sudore, ha dovuto assorbire il sangue dei vigliacchi eccidi nazi-fascisti, dai quali nacque una lotta fiera e orgogliosa, e ben presto tradita. Le case del popolo, le cooperative, le bestemmie come intercalare. Dalla fine della seconda guerra mondiale tutti i rapporti economici e sociali si sono retti su compromessi formali, sia con il capitale che con la chiesa, e di conseguenza con l’organismo che le riuniva, la democrazia cristiana. Le amministrazioni erano guidate a grande maggioranza dal PCI, e distillavano politiche sociali quel tanto che bastava a tenere calma la base ed evitare che si corresse il rischio di realizzare il comunismo. La domenica il marito andava al bar e la moglie ad ascoltare il prete, così che il saldo delle anime fosse almeno in pareggio. Le cose sembravano funzionare e questa situazione si cristallizzò: i bottegai costruivano villette abusive al mare, il “padrone-compagno” elargiva tredicesime agli operai, che in questo modo potevano permettersi l’auto e tutti i comfort del nascente consumismo.
Con la caduta del Muro e le conseguenti periodiche ristrutturazioni del capitalismo, il compromesso iniziò a vacillare, scoperchiando tutte le sue contraddizioni. La sinistra istituzionale, durante tutte le sue involuzioni, è rimasta al timone del potere locale, ma per sopravvivere è stata costretta a continue concessioni nei confronti del nuovo assetto economico: in poche parole, essendo i rapporti di forza favorevoli a quest’ultimo, ha dovuto mascherare le privatizzazioni e i tagli al welfare come frutti della propria anima riformista, puntando sulla narrazione di un “liberismo dal volto umano”. In questo brodo di coltura, con l’opinione pubblica ancora frastornata, incapace di reagire e tendenzialmente sempre più povera, si sono fatte strada nella classe dirigente del nuovo partito mutazioni ibride, soluzioni liquide buone per tutte le stagioni, figure che mantengono i tratti d’onestà e fiducia tipici di una certa idea di sinistra, unito al pragmatismo delle buone intenzioni dal sapore democristiano, il tutto condito dalla giusta dose di paraculaggine ereditata dal miglior berlusconismo. Questo nuovo standard nazional-popolare, integrandosi con la supposta, proverbiale simpatia dei toscani, ha generato oltretutto personaggi funzionali ad una determinata narrazione culturale, che hanno fatto in una certa misura da apripista al successo del format. Ci riferiamo a starlette del calibro di Carlo Conti, Pieraccioni, Panariello, Jovanotti, spacciatori inflazionati di sentimenti plastificati e spensierate risate, ansiolitici ideali a far dimenticare la pauperizzazione delle nostre esistenze.
Ovviamente voteremo NO al prossimo referendum. Ma non per esprimere disaccordo su una legge specifica, salvare la costituzione, o a cosa diavolo serva questo referendum. D’altra parte, anche le destre e losche figure imprenditoriali hanno manifestato la loro intenzione di diniego, inserita nelle dinamiche di lotta per il potere interne alle classi dirigenti, dimensione che non ci riguarda. La Legge è sempre stata funzionale alla gestione e alla conservazione dei privilegi delle classi dominanti, lo abbiamo ben chiaro e non abbiamo la pretesa di cambiarla, ne vogliamo piuttosto la dissoluzione. Il nostro NO trascende l’apporre una semplice crocetta su un foglio: è la risposta ad una domanda che chi ci governa ha una gran paura di porci, è la negazione di tutto un sistema di pensiero basato sullo sfruttamento e la prevaricazione, è l’opposizione totale, radicale, alle azioni che una minoranza ben armata sta imponendo al resto dell’umanità. Se poi questo voto servirà a far cadere un governo, tanto di guadagnato: alimentare il caos, analizzarlo, approfittare delle pieghe che possono essere favorevoli alla nostra classe, quella proletaria, visto che la confusione che regna in essa non ne permette un’organizzazione. Si può avere opinioni differenti su questioni specifiche, ma su una cosa bisognerebbe essere tutti d’accordo: il capitalismo va distrutto, prima che ci distrugga.

COLLETTIVO ANTIKUNST


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