domenica 15 dicembre 2013

ANTOLOGIA DEL PENSIERO INUTILITARISTA



Solo un bacio ci tapperà la bocca”: questo abbiamo scritto sui muri della nostra città. Una dichiarazione d’intenti nella quale rivendichiamo l’obbedienza ad un unico padrone: il nostro desiderio. Un padrone gentile, discreto, al quale non serve nessun esercito poliziesco per farsi rispettare, non ha bisogno di alcuna disciplina ortodossa o cieca devozione per amplificare il suo ego. La sua forza costruttiva risiede nell’animo di ogni essere umano, si dispiega naturalmente ogni giorno, in ogni vita vissuta cercandone la bellezza, quella fragranza succulenta che si profonde ogniqualvolta compiamo un’azione disinteressata e priva di qualsivoglia utilità economica. Ed è questo il nostro obiettivo, costruire un’epica della nuova Resistenza contro la dittatura dell’utile, ristabilire la centralità delle nostre vite e dei nostri bisogni animali, combattendo costantemente qualsiasi ingerenza utilitaristica che logora il nostro corpo e la nostra mente. Per farlo, abbiamo scelto di esplorare ogni frammento della quotidianità alla spasmodica ricerca della poesia urbana della rivolta e darle una nuova armonia che la faccia risaltare e splendere di luce propria nel mezzo del caos meccanico e multimediale delle nostre città. Abbiamo annotato scrupolosamente ogni scritta sui muri dell’immenso tazebao fornitoci dalla speculazione edilizia, tutte quelle voci-spray che testimoniano come la propaganda spettacolare è tutt’altro che onnisciente e contiene delle falle che l’ironia e il paradosso renderanno sempre più evidenti. Frasi come “i vostri etilometri non fermeranno la nostra sete”, “il degrado mi aggrada”, “basta fatti, vogliamo promesse”, che, come opere d’arte, fanno bella mostra di sé agli angoli delle strade, sono il segno tangibile di un’insofferenza alle regole di questa falsa democrazia, e sono la riprova più audace che il monito “muri puliti, popoli muti” non verrà mai disatteso, e che gli imbianchini crumiri del comune avranno sempre il loro sporco lavoro da compiere. Abbiamo archiviato con maniacalità quasi filatelica ogni volantino, fanzine, cartellone, flyer, che documentasse il lavoro di controinformazione e attività ludica popolare dei movimenti antagonisti e non solo, perché saranno i ricordi più belli che ci porteremo dietro nella nostra esistenza, e che serviranno nei momenti di sconforto per ricordarci che non siamo mai stati soli, che la nostra lotta è orgogliosa e non si vergogna di mostrarlo. Abbiamo riscoperto e imparato a memoria le vecchie canzoni popolari anarchiche, rivoltose melodie che riecheggiavano durante gli scioperi e ai cortei, ai tempi in cui la rivoluzione poteva sembrare imminente. Sono mosse da una commovente sincerità, e cantarle infonde un senso di fiducia e di unità d’intenti: come disse un compagno livornese “Sono come le canzoni di Elvis, non passano mai di moda”. Tutte queste sono le espressioni più geniali e scaltre, le manifestazioni attuali della millenaria ricerca dell’umanità di affrancarsi dal dominio del potere, lo sguardo più puro di chi si muove, suda, lotta, ama, soffre e poi muore senza nessun rimpianto: forse non vedremo mai il sol dell’avvenire, ma ce ne siamo fatti una concezione magnifica, un’immagine che dirige le nostre mosse verso la sua realizzazione.

Per questo ci siamo sentiti autorizzati a contribuire verso la ricerca di questa strada, esponendo quelle che secondo noi sono le coordinate per raggiungerla. Fu in occasione della costruzione di un centro commerciale a Empoli, che scrivemmo il nostro primo volantino. La portata di questi eventi non viene mai compresa appieno da chi vive sul territorio per vari motivi, tra i quali l’eccesiva invadenza della propaganda pubblicitaria su menti che non si possono permettere il lusso di oziare perché strette nella morsa del ricatto salariale, e per il fatto che, prima di aprire, i danni che i centri commerciali provocheranno possono essere soltanto previsioni e non fatti tangibili, quindi potenzialmente inattaccabili in una visione della storia basata sulla menzognera promessa di un futuro benessere per tutti i suoi componenti. Era il 2007 e i danni si sono cominciati a vedere da subito, insieme alla riprova che il potere non impara mai dai suoi sbagli perché raramente ne paga le conseguenze. Ci prendemmo gusto e poco dopo ci occupammo della cacciata del papa tedesco dall’università di Roma come spunto per una critica all’ideologia religiosa, argomento questo che ha sempre suscitato il nostro disgusto. Alla luce dei fatti odierni, con l’allontanamento di Ratzinger perché non abbastanza telegenico, licenziato come una qualsiasi soubrette che ha messo su qualche chilo, siamo più che mai convinti che la chiesa cattolica sia solo uno dei tanti brand del libero mercato, che ha dalla sua rispetto agli altri una tradizione oscurantista invidiata da tutte le dirigenze capitaliste.

Intanto il decennio volgeva al termine tra un anniversario e l’altro, senza che nessuno se ne accorgesse: gli apologeti della “fine della storia” si convinsero troppo presto di essere riusciti a sterminare il dissenso, mentre l’ennesima crisi del capitalismo si sviluppava nel loro ventre molle. I ceppi della nuova resistenza erano continuati ad ardere sotto le macerie causate dalle guerre umanitarie, dapprima tiepidamente, poi con sempre più forza, delineandosi in maniera così inedita da sconfessare ogni storiografo privo di fantasia. Che si mettessero l’animo in pace: la storia sarebbe continuata, così come continua da migliaia di anni, e non saranno certo i maldestri e incompleti strumenti spettacolari ad estinguerla. La rivolta si ricrea, si rigenera come una macchia di umido sulle pareti di una galera dell’esistenza, la rivolta è per forza di cose improvvisazione perché i suoi nemici cercano sempre nuovi stratagemmi per contenerla. Ed è quando essa riesce a prendere in contropiede la reazione del potere, che allora ha delle possibilità di successo. A partire da un linguaggio che non venga riportato impunemente sui media tradizionali per favorirne l’accumulo di parole, perché privo della possibilità di essere riprodotto dai dispositivi spettacolari, ma che venga al contrario usato come uno strumento pratico nella realtà materiale. Un linguaggio che torni a suscitare la fiducia nelle azioni, che abbia di nuovo un significato, una nuova poetica dell’esistente. Ci è stato rinfacciato molte volte il fatto che la nostra scrittura sia complicata e indecifrabile: non pensiamo sia esatto. Premettendo che, tra otto e novecento, operai semi-analfabeti leggevano, tra gli altri, Marx e Bakunin, Malatesta e Gramsci, portando ad una dimensione pratica le loro teorie, pensiamo sia quantomeno inopportuno sembrare orgogliosi della propria ignoranza, facendo leva su una supposta appartenenza al “popolo basso”, come se il “popolo basso” non fosse in grado di essere intelligente, curioso e critico. Nessun linguaggio che si occupa sinceramente dell’emancipazione degli individui dalla loro schiavitù, potrà mai risultare tanto complicato da non essere capito da chi ha a cuore la propria libertà; oppure venir derubricato a utopia. La nostra personale ricerca di un linguaggio primevo ci costringe a negare i facili meccanismi spettacolari, perché si correrebbe il rischio di una sterilizzazione delle idee e alla loro conseguente svalutazione. La nostra lettura può richiedere forse uno sforzo, ma è uno sforzo costruttivo che cerchiamo in tutti i modi di rendere piacevole e divertente. Non si può scaricare un discorso bollandolo come incomprensibile, quando nello stesso tempo si delega la contestazione ai network sociali, riempiendoli di retorici slogan semplicisti. La condizione di ignoranza delle masse è sempre stato uno dei requisiti dell’affermazione del capitalismo, e la sua promozione rimane una delle controffensive preferite dalle sue gerarchie. Lo smantellamento della scuola pubblica dopo averla riconosciuta con riluttanza, l’analfabetizzazione di ritorno, il sempre più invasivo controllo cibernetico sulle menti dei cittadini-consumatori, sono tutti aspetti della controrivoluzione che cerca di nascondere la sua esistenza dietro la maschera della pacificazione sociale.

Antikunst è nato spontaneamente, come un gioco, dall’incontro di personalità sagaci e spiritose, influenzato senza dubbio dalla nuova presa di coscienza che sta attraversando l’animo degli strati popolari dalla fine degli anni zero: un collettivo in divenire, che si è sempre messo in discussione, che ha dei picchi di entusiasmo come dei periodi di scoramento, ma che cerca di mantenere ben saldo il timone verso l’affermazione della vita di chi lo compone. E’ un mezzo che non giustifica il fine perché ancora non ne ha definito i contorni; non può prefiggersi uno scopo, in quanto la sua ricerca terminerà insieme all’esistenza degli individui coinvolti. La prima azione rivendicata da Antikunst fu la collocazione di gabbie di legno colorate sulle statue dei leoni in piazza Farinata degli Uberti a Empoli, per il 25 aprile del 2011 (in quell’occasione fu diffuso il volantino del manifesto inutilitarista). La settimana successiva, per la festa dei lavoratori, creammo, sempre in un giardino del centro, un cimitero di croci sulle quali stavano scritti i nomi dei moderni contratti di lavoro che il capitalismo ha inventato per giustificare lo sfruttamento, insieme ad una lapide nera che riportava il testo della poesia “Primo omaggio” (“Forse non sarà l’ultimo inverno, ecc…). Furono momenti di empatia artistico-rivoluzionaria che, col senno di poi, servirono più alla nostra consapevolezza che allo sviluppo di un discorso politico. Nell’ottobre 2012 salimmo agli onori della cronaca con la foto di uno travestito da D’Alema sotto il camper di Matteo Renzi, sicuramente la nostra azione più eclatante, anche perché assolutamente casuale. Con il volantino diffuso qualche giorno dopo (“Storia patetica di un’investitura”) avemmo anche la riprova che il nostro percorso di affrancamento dai dispositivi spettacolari si dispiegava nella giusta direzione. L’immagine fotografica, essendo una rappresentazione della realtà estrapolata da una consequenzialità dinamica, prestò il fianco alle più assurde illazioni e venne usata come un qualsiasi gossip nelle lotte intestine al pd; viceversa, il testo del comunicato fu deliberatamente censurato, perché rimarca l’estrema miseria del dibattito ai tempi della definitiva spettacolarizzazione della politica, e si fa beffe della convinzione che sostiene l’autostima dei gerarchi democratici di essere ancora considerati come tali. Tutto quello appena detto non contiene nessun intento celebrativo, è soltanto un’analisi di fatti che ci riguardano in prima persona, e che non vogliono redigere in nessun caso un modus operandi ultimativo; è semplicemente la narrazione delle nostre esperienze pratiche, il più funzionale possibile al nostro obiettivo.

Il posto dove stiamo si chiama Limite sull’Arno: un paese di mare a sessanta chilometri dal mare, una meravigliosa anomalia geografica. Stretto tra l’argine del fiume e le colline del Montalbano, visto dall’alto ha la forma di una banana bianca. Terra operaia di cantieri navali ormai quasi completamente chiusi, di contadini abituati alle salite, di assidui e fantasiosi bestemmiatori, di impenitenti sfaccendati che vagano per i boschi alla ricerca di funghi, asparagi, erbe psicotrope o solamente di una visione che dia un senso alla loro giornata. Personaggi sarcastici che sanno e si sanno prendere in giro, orgogliosi e polemici, sempre pronti a menar le mani più per ruzzo che per odio vero e proprio. Pomeriggi estivi passati a cacciare lucertole con cappi di fili d’erba, ipnotizzati nell’arsura dai vortici di vento che raccolgono le cartacce sull’asfalto sfocato; pomeriggi invernali seduti nei tristi bar troppo illuminati, a bere vino e a cercare di dare un senso alla giornata con la scusa di rievocare l’edonismo dei nostri antenati etruschi. E sullo sfondo una resistenza inconsapevole verso tutto ciò che rappresenta una novità, la quale, non trovando una soluzione semplice al suo bisogno di organizzazione, si riduce ad una grama conservazione stridente contro le risate, i brindisi, e il rifiuto del sacrificio che serpeggiano lungo le strade dissestate. Una dignità esibita con disinvoltura sul lungarno ciottoloso, raccogliendo pinoli o rollandosi una canna, tirando sassate inconcludenti verso l’altra sponda o conoscendo nuovi amori, rimanendo immobili per ore, col caldo o con l’umidità, a pescare carpe e siluri, scoprendo che, come dice il filosofo, il fiume non è mai lo stesso (infatti un tempo era molto più pulito). Intanto lui, verde e marrone, scorre verso la sua fine silenzioso nel crepuscolo; i pioppi mossi dalla brezza di tramontana sembrano intonare un verboso blues campestre: narra di una potenziale rivolta soffocata nell’architettura socialdemocratica, di una lussureggiante promessa di benessere che si è rivelata una deludente sciatteria ad orologeria, di una fabbrica di nastri adesivi data alle fiamme una mattina d’autunno per una truffa assicurativa, che ha condannato una generazione alla calvizie precoce e a complessi di inferiorità irreversibili. La stessa generazione che sta iniziando a porsi domande scomode e ad agire di conseguenza, visto che non deve passare troppo tempo davanti allo specchio a sistemarsi i capelli.

Un tragitto controvento è sempre il più lungo”, eppure quel sentiero è stato battuto nei secoli (e continua tutt’oggi ad esserlo) da guerriglieri con le scarpe rotte e i fucili difettosi, da vagabondi con i sandali alati, da latitanti gentili che sfuggono al loro destino di reclusi, da tutti i ribelli che non si stancano mai di cercare la bellezza delle proprie esistenze e che non hanno nessuna intenzione di rinunciare a trovarla. Dai monti di Sarzana alle barricate di Barcellona, dalle foreste del Chiapas alle valli della Susa, dalle piazze incendiarie dell’oriente alle macerie della Palestina, passando per l’Euskadi, le banlieu, le favelas, da tutti gli spazi riconquistati e sottratti all’illusione capitalista: un moto di orgoglio e di inestinguibile fervore muove i passi di questi diseredati, nella certezza che le sconsiderate contestazioni e i lampi di rivolta, la violenza inevitabile e l’amore debordante, spianeranno la strada verso un’esistenza priva di obblighi insensati e valori inutili (nel senso dispregiativo del termine).


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