ANTOLOGIA
DEL PENSIERO INUTILITARISTA
“Solo
un bacio ci tapperà la bocca”: questo abbiamo scritto sui muri
della nostra città. Una dichiarazione d’intenti nella quale
rivendichiamo l’obbedienza ad un unico padrone: il nostro
desiderio. Un padrone gentile, discreto, al quale non serve nessun
esercito poliziesco per farsi rispettare, non ha bisogno di alcuna
disciplina ortodossa o cieca devozione per amplificare il suo ego. La
sua forza costruttiva risiede nell’animo di ogni essere umano, si
dispiega naturalmente ogni giorno, in ogni vita vissuta cercandone la
bellezza, quella fragranza succulenta che si profonde ogniqualvolta
compiamo un’azione disinteressata e priva di qualsivoglia utilità
economica. Ed è questo il nostro obiettivo, costruire un’epica
della nuova Resistenza contro la dittatura dell’utile, ristabilire
la centralità delle nostre vite e dei nostri bisogni animali,
combattendo costantemente qualsiasi ingerenza utilitaristica che
logora il nostro corpo e la nostra mente. Per farlo, abbiamo scelto
di esplorare ogni frammento della quotidianità alla spasmodica
ricerca della poesia urbana della rivolta e darle una nuova armonia
che la faccia risaltare e splendere di luce propria nel mezzo del
caos meccanico e multimediale delle nostre città. Abbiamo annotato
scrupolosamente ogni scritta sui muri dell’immenso tazebao
fornitoci dalla speculazione edilizia, tutte quelle voci-spray che
testimoniano come la propaganda spettacolare è tutt’altro che
onnisciente e contiene delle falle che l’ironia e il paradosso
renderanno sempre più evidenti. Frasi come “i vostri etilometri
non fermeranno la nostra sete”, “il degrado mi aggrada”, “basta
fatti, vogliamo promesse”, che, come opere d’arte, fanno bella
mostra di sé agli angoli delle strade, sono il segno tangibile di
un’insofferenza alle regole di questa falsa democrazia, e sono la
riprova più audace che il monito “muri puliti, popoli muti” non
verrà mai disatteso, e che gli imbianchini crumiri del comune
avranno sempre il loro sporco lavoro da compiere. Abbiamo archiviato
con maniacalità quasi filatelica ogni volantino, fanzine,
cartellone, flyer, che documentasse il lavoro di controinformazione e
attività ludica popolare dei movimenti antagonisti e non solo,
perché saranno i ricordi più belli che ci porteremo dietro nella
nostra esistenza, e che serviranno nei momenti di sconforto per
ricordarci che non siamo mai stati soli, che la nostra lotta è
orgogliosa e non si vergogna di mostrarlo. Abbiamo riscoperto e
imparato a memoria le vecchie canzoni popolari anarchiche, rivoltose
melodie che riecheggiavano durante gli scioperi e ai cortei, ai tempi
in cui la rivoluzione poteva sembrare imminente. Sono mosse da una
commovente sincerità, e cantarle infonde un senso di fiducia e di
unità d’intenti: come disse un compagno livornese “Sono come le
canzoni di Elvis, non passano mai di moda”. Tutte queste sono le
espressioni più geniali e scaltre, le manifestazioni attuali della
millenaria ricerca dell’umanità di affrancarsi dal dominio del
potere, lo sguardo più puro di chi si muove, suda, lotta, ama,
soffre e poi muore senza nessun rimpianto: forse non vedremo mai il
sol dell’avvenire, ma ce ne siamo fatti una concezione magnifica,
un’immagine che dirige le nostre mosse verso la sua realizzazione.
Per
questo ci siamo sentiti autorizzati a contribuire verso la ricerca di
questa strada, esponendo quelle che secondo noi sono le coordinate
per raggiungerla. Fu in occasione della costruzione di un centro
commerciale a Empoli, che scrivemmo il nostro primo volantino. La
portata di questi eventi non viene mai compresa appieno da chi vive
sul territorio per vari motivi, tra i quali l’eccesiva invadenza
della propaganda pubblicitaria su menti che non si possono permettere
il lusso di oziare perché strette nella morsa del ricatto salariale,
e per il fatto che, prima di aprire, i danni che i centri commerciali
provocheranno possono essere soltanto previsioni e non fatti
tangibili, quindi potenzialmente inattaccabili in una visione della
storia basata sulla menzognera promessa di un futuro benessere per
tutti i suoi componenti. Era il 2007 e i danni si sono cominciati a
vedere da subito, insieme alla riprova che il potere non impara mai
dai suoi sbagli perché raramente ne paga le conseguenze. Ci
prendemmo gusto e poco dopo ci occupammo della cacciata del papa
tedesco dall’università di Roma come spunto per una critica
all’ideologia religiosa, argomento questo che ha sempre suscitato
il nostro disgusto. Alla luce dei fatti odierni, con l’allontanamento
di Ratzinger perché non abbastanza telegenico, licenziato come una
qualsiasi soubrette che ha messo su qualche chilo, siamo più che mai
convinti che la chiesa cattolica sia solo uno dei tanti brand del
libero mercato, che ha dalla sua rispetto agli altri una tradizione
oscurantista invidiata da tutte le dirigenze capitaliste.
Intanto
il decennio volgeva al termine tra un anniversario e l’altro, senza
che nessuno se ne accorgesse: gli apologeti della “fine della
storia” si convinsero troppo presto di essere riusciti a sterminare
il dissenso, mentre l’ennesima crisi del capitalismo si sviluppava
nel loro ventre molle. I ceppi della nuova resistenza erano
continuati ad ardere sotto le macerie causate dalle guerre
umanitarie, dapprima tiepidamente, poi con sempre più forza,
delineandosi in maniera così inedita da sconfessare ogni storiografo
privo di fantasia. Che si mettessero l’animo in pace: la storia
sarebbe continuata, così come continua da migliaia di anni, e non
saranno certo i maldestri e incompleti strumenti spettacolari ad
estinguerla. La rivolta si ricrea, si rigenera come una macchia di
umido sulle pareti di una galera dell’esistenza, la rivolta è per
forza di cose improvvisazione perché i suoi nemici cercano sempre
nuovi stratagemmi per contenerla. Ed è quando essa riesce a prendere
in contropiede la reazione del potere, che allora ha delle
possibilità di successo. A partire da un linguaggio che non venga
riportato impunemente sui media tradizionali per favorirne l’accumulo
di parole, perché privo della possibilità di essere riprodotto dai
dispositivi spettacolari, ma che venga al contrario usato come uno
strumento pratico nella realtà materiale. Un linguaggio che torni a
suscitare la fiducia nelle azioni, che abbia di nuovo un significato,
una nuova poetica dell’esistente. Ci è stato rinfacciato molte
volte il fatto che la nostra scrittura sia complicata e
indecifrabile: non pensiamo sia esatto. Premettendo che, tra otto e
novecento, operai semi-analfabeti leggevano, tra gli altri, Marx e
Bakunin, Malatesta e Gramsci, portando ad una dimensione pratica le
loro teorie, pensiamo sia quantomeno inopportuno sembrare orgogliosi
della propria ignoranza, facendo leva su una supposta appartenenza al
“popolo basso”, come se il “popolo basso” non fosse in grado
di essere intelligente, curioso e critico. Nessun linguaggio che si
occupa sinceramente dell’emancipazione degli individui dalla loro
schiavitù, potrà mai risultare tanto complicato da non essere
capito da chi ha a cuore la propria libertà; oppure venir
derubricato a utopia. La nostra personale ricerca di un linguaggio
primevo ci costringe a negare i facili meccanismi spettacolari,
perché si correrebbe il rischio di una sterilizzazione delle idee e
alla loro conseguente svalutazione. La nostra lettura può richiedere
forse uno sforzo, ma è uno sforzo costruttivo che cerchiamo in tutti
i modi di rendere piacevole e divertente. Non si può scaricare un
discorso bollandolo come incomprensibile, quando nello stesso tempo
si delega la contestazione ai network sociali, riempiendoli di
retorici slogan semplicisti. La condizione di ignoranza delle masse è
sempre stato uno dei requisiti dell’affermazione del capitalismo, e
la sua promozione rimane una delle controffensive preferite dalle sue
gerarchie. Lo smantellamento della scuola pubblica dopo averla
riconosciuta con riluttanza, l’analfabetizzazione di ritorno, il
sempre più invasivo controllo cibernetico sulle menti dei
cittadini-consumatori, sono tutti aspetti della controrivoluzione che
cerca di nascondere la sua esistenza dietro la maschera della
pacificazione sociale.
Antikunst
è nato spontaneamente, come un gioco, dall’incontro di personalità
sagaci e spiritose, influenzato senza dubbio dalla nuova presa di
coscienza che sta attraversando l’animo degli strati popolari dalla
fine degli anni zero: un collettivo in divenire, che si è sempre
messo in discussione, che ha dei picchi di entusiasmo come dei
periodi di scoramento, ma che cerca di mantenere ben saldo il timone
verso l’affermazione della vita di chi lo compone. E’ un mezzo
che non giustifica il fine perché ancora non ne ha definito i
contorni; non può prefiggersi uno scopo, in quanto la sua ricerca
terminerà insieme all’esistenza degli individui coinvolti. La
prima azione rivendicata da Antikunst fu la collocazione di gabbie di
legno colorate sulle statue dei leoni in piazza Farinata degli Uberti
a Empoli, per il 25 aprile del 2011 (in quell’occasione fu diffuso
il volantino del manifesto inutilitarista). La settimana successiva,
per la festa dei lavoratori, creammo, sempre in un giardino del
centro, un cimitero di croci sulle quali stavano scritti i nomi dei
moderni contratti di lavoro che il capitalismo ha inventato per
giustificare lo sfruttamento, insieme ad una lapide nera che
riportava il testo della poesia “Primo omaggio” (“Forse non
sarà l’ultimo inverno, ecc…). Furono momenti di empatia
artistico-rivoluzionaria che, col senno di poi, servirono più alla
nostra consapevolezza che allo sviluppo di un discorso politico.
Nell’ottobre 2012 salimmo agli onori della cronaca con la foto di
uno travestito da D’Alema sotto il camper di Matteo Renzi,
sicuramente la nostra azione più eclatante, anche perché
assolutamente casuale. Con il volantino diffuso qualche giorno dopo
(“Storia patetica di un’investitura”) avemmo anche la riprova
che il nostro percorso di affrancamento dai dispositivi spettacolari
si dispiegava nella giusta direzione. L’immagine fotografica,
essendo una rappresentazione della realtà estrapolata da una
consequenzialità dinamica, prestò il fianco alle più assurde
illazioni e venne usata come un qualsiasi gossip nelle lotte
intestine al pd; viceversa, il testo del comunicato fu
deliberatamente censurato, perché rimarca l’estrema miseria del
dibattito ai tempi della definitiva spettacolarizzazione della
politica, e si fa beffe della convinzione che sostiene l’autostima
dei gerarchi democratici di essere ancora considerati come tali.
Tutto quello appena detto non contiene nessun intento celebrativo, è
soltanto un’analisi di fatti che ci riguardano in prima persona, e
che non vogliono redigere in nessun caso un modus
operandi ultimativo;
è semplicemente la narrazione delle nostre esperienze pratiche, il
più funzionale possibile al nostro obiettivo.
Il
posto dove stiamo si chiama Limite sull’Arno: un paese di mare a
sessanta chilometri dal mare, una meravigliosa anomalia geografica.
Stretto tra l’argine del fiume e le colline del Montalbano, visto
dall’alto ha la forma di una banana bianca. Terra operaia di
cantieri navali ormai quasi completamente chiusi, di contadini
abituati alle salite, di assidui e fantasiosi bestemmiatori, di
impenitenti sfaccendati che vagano per i boschi alla ricerca di
funghi, asparagi, erbe psicotrope o solamente di una visione che dia
un senso alla loro giornata. Personaggi sarcastici che sanno e si
sanno prendere in giro, orgogliosi e polemici, sempre pronti a menar
le mani più per ruzzo che per odio vero e proprio. Pomeriggi estivi
passati a cacciare lucertole con cappi di fili d’erba, ipnotizzati
nell’arsura dai vortici di vento che raccolgono le cartacce
sull’asfalto sfocato; pomeriggi invernali seduti nei tristi bar
troppo illuminati, a bere vino e a cercare di dare un senso alla
giornata con la scusa di rievocare l’edonismo dei nostri antenati
etruschi. E sullo sfondo una resistenza inconsapevole verso tutto ciò
che rappresenta una novità, la quale, non trovando una soluzione
semplice al suo bisogno di organizzazione, si riduce ad una grama
conservazione stridente contro le risate, i brindisi, e il rifiuto
del sacrificio che serpeggiano lungo le strade dissestate. Una
dignità esibita con disinvoltura sul lungarno ciottoloso,
raccogliendo pinoli o rollandosi una canna, tirando sassate
inconcludenti verso l’altra sponda o conoscendo nuovi amori,
rimanendo immobili per ore, col caldo o con l’umidità, a pescare
carpe e siluri, scoprendo che, come dice il filosofo, il fiume non è
mai lo stesso (infatti un tempo era molto più pulito). Intanto lui,
verde e marrone, scorre verso la sua fine silenzioso nel crepuscolo;
i pioppi mossi dalla brezza di tramontana sembrano intonare un
verboso blues campestre: narra di una potenziale rivolta soffocata
nell’architettura socialdemocratica, di una lussureggiante promessa
di benessere che si è rivelata una deludente sciatteria ad
orologeria, di una fabbrica di nastri adesivi data alle fiamme una
mattina d’autunno per una truffa assicurativa, che ha condannato
una generazione alla calvizie precoce e a complessi di inferiorità
irreversibili. La stessa generazione che sta iniziando a porsi
domande scomode e ad agire di conseguenza, visto che non deve passare
troppo tempo davanti allo specchio a sistemarsi i capelli.
“Un
tragitto controvento è sempre il più lungo”, eppure quel sentiero
è stato battuto nei secoli (e continua tutt’oggi ad esserlo) da
guerriglieri con le scarpe rotte e i fucili difettosi, da vagabondi
con i sandali alati, da latitanti gentili che sfuggono al loro
destino di reclusi, da tutti i ribelli che non si stancano mai di
cercare la bellezza delle proprie esistenze e che non hanno nessuna
intenzione di rinunciare a trovarla. Dai monti di Sarzana alle
barricate di Barcellona, dalle foreste del Chiapas alle valli della
Susa, dalle piazze incendiarie dell’oriente alle macerie della
Palestina, passando per l’Euskadi, le banlieu, le favelas, da tutti
gli spazi riconquistati e sottratti all’illusione capitalista: un
moto di orgoglio e di inestinguibile fervore muove i passi di questi
diseredati, nella certezza che le sconsiderate contestazioni e i
lampi di rivolta, la violenza inevitabile e l’amore debordante,
spianeranno la strada verso un’esistenza priva di obblighi
insensati e valori inutili (nel senso dispregiativo del termine).
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