Sfortunatamente non abbiamo avuto
l’occasione di vedere all’opera il cosiddetto movimento dei forconi, perché
nell’empolese la proposta dell’appuntamento del 9 dicembre non è stata recepita
a causa, pensiamo noi, di una dipendenza ancora molto marcata verso un’idea
“novecentesca” della sinistra e della sua onnipresenza nelle istituzioni
locali. Però, leggendo i resoconti di quelle mobilitazioni sui siti di
movimento, ci siamo resi conto che i tratti distintivi dei protagonisti delle
proteste sono riscontrabili nella nostra quotidianità di lavoratori precari e
osservatori curiosi delle dinamiche umane. In certi casi, visitare la tavola
calda di una zona industriale durante la pausa pranzo è più istruttivo che
seguire una lezione di sociologia alla Sorbonne. Si colgono delle rivelazioni
che nessun discorso politico o proposta teorica sono in grado di postulare:
saper spiegare perché, nonostante la diffusa concezione di crisi e
disoccupazione, gli operai rimasti al lavoro sono costretti a ore di
straordinari e sabati obbligatori; perché i figli della classe operaia (che ha
ottenuto, e otterrà ancora per qualche anno, la pensione) devono accettare
tirocini a 40 ore, pagati dalla regione, sapendo già in partenza di non venir
assunti alla scadenza, e di venir mantenuti dalla famiglia, lo stato sociale
del terzo millennio; perché, dopo averci assicurato per anni di far parte di un
economia globale e strettamente interconnessa, adesso ci sono stati che se la
passano bene e altri, oltretutto confinanti fra di loro, che se la passano
peggio.
Il becero nazionalismo ostentato in gran
parte delle presenze in piazza, oltre a creare una discutibile impressione
cromatica, è un emblema di una sconfitta annunciata: storicamente, la bandiera
italiana è stata usata come strumento di sottomissione o, al massimo, come
accessorio da stadio (la vittoria della coppa del mondo nel 2006 è stata un
pericoloso incentivo alla riscoperta delle pezzole tricolori); all’adozione di
questo simbolo è legato, magari solo inconsciamente, il desiderio di tornare al
passato, quando la classe media garantita si poteva permettere le ferie e
l’ultimo status simbol automobilistico. E’ la sola speranza che gli è rimasta e
la sola prospettiva che riescono ad immaginarsi.
In generale, queste mobilitazioni
possono dirsi fallite, così come è fallito il tentativo delle varie lobby del
neo-fascismo di speculare sull’ignoranza e la disperazione. Ciò non toglie che
il “furore della rivolta” sta continuando a covare nei bassifondi delle città e
nelle province annoiate, nei luoghi del lavoro senza determinazione e nei
locali del divertimento forzato come nei campi di concentramento dei migranti;
nuove forme di resistenza al potere contro la mafia legalizzata e la
repressione poliziesca. Non ci resta che intercettare questi stimoli in
previsione di nuove sollevazioni popolari, per non rischiare di rimanere
vittime di un’inazione disorganizzata e insoddisfacente.
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